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Intervista @LORENZO RICHELMY

[:it]Io e Lorenzo Richelmy ci siamo incontrati spesso sia nella vita che nel lavoro. Dopo l’anteprima e la mia recensione di “DOLCEROMA” gli ho chiesto di concedermi una”amichevole” intervista… Ci siamo dati appuntamento vicino a Ponte Milvio a Roma e lui sì è presentato come ho imparato sempre ad apprezzarlo: nel suo modo umile, benevolo e semplice. Ci siamo seduti ad un bar, abbiamo ordinato e dopo due chiacchiere “fuori onda” abbiamo iniziato… la cosa ci è piacevolmente sfuggita di mano e abbiamo parlato per ore di ogni tipo di argomento… il risultato è questa ricca intervista. Buona lettura!

Sei figlio d’arte… hai avuto 3 formazioni: una in famiglia una a scuola e una sul lavoro, quale delle tre è stata la più significativa? E perché?

Sono tre Step diversi: nel primo vedo le mie origini, nel secondo un mio desiderio, nel terzo quella che è stata l’esperienza vera e propria. Quella più significativa, che mi ha lasciato di più anche in termini umani è sicuramente quella lavorativa. È una fortuna che so di avere ho avuto: ho iniziato questo mestiere da piccolo e ciò mi ha dato la possibilità di trovarmi nella situazione ideale per capire com’era, come affrontarlo nel modo più giusto. Nella mia famiglia sono prevalentemente attori di teatro, una bellissima formazione, partire dalle radici. Ma nel mondo di oggi, in come l’attore viene visto, è fondamentale lavorare per capire come puoi riuscire al meglio. Adesso è spesso una professione solitaria. In passato gli attori avevano, non dico più potere, ma la possibilità di dire la loro più facilmente. Ora sei più costretto dalle “dinamiche”, è una lotta dura capire quanto tu possa far uscire fuori quello che pensi sia giusto per te invece di ripetere a pappagallo quello che ti scrivono gli sceneggiatori, dare le battute in maniera che tenda più giustizia alla tua idea che quella di altri. Donare un arricchimento a quello che stai facendo. Questo è avvenuto solo attraverso l’esperienza lavorativa.

La famiglia?

Allora… i miei non sono stati particolarmente favorevoli alla mia formazione da attore, ma perché ne vedevano i rischi. Non avendo avuto carriere facili la paura più grande è quella di trovarti un figlio che non lavora: erano preoccupati… Ma non è stata nemmeno la situazione del padre che ti grida addosso “Disgraziato! Che fai?!”, no, sono stati aperti e molto attenti. È stato quello che ad oggi mi ha insegnato a tenere la testa bassa, capire che è un mestiere fatto di “sali e scendi”, che è molto difficile da fare a lungo termine. Ci vuole una bella dose di fortuna.

E la scuola?

La scuola è stata fondamentale. A 16 anni feci “I LICEALI”, una serie di Canale 5 che ebbe moltissimo successo (figurati che se vengo a Roma ancora oggi mi riconoscono per quello, mica per “MARCO POLO” o per altro…). A quel punto avevo davanti la scelta di andare verso una carriera del tipo televisiva, sapendo che però non ero padrone di quello che facevo realmente, oppure studiare. I due protagonisti della serie, GIORGIO TIRABASSI e CLAUDIA PANDOLFI, furono molto bravi a consigliarmi dicendomi “Studia! Sicuramente è la cosa più intelligente che puoi fare! Sei giovane, hai tempo… Perché devi lanciarti adesso verso qualcosa che non conosci? Studia e capisci chi sei, cosa vuoi fare e come puoi farlo”.

Le tue ultime fatiche: “Ride”, “Sanctuary” e “Dolceroma”. Che personaggi sono? Parlacene e dicci come ti senti legato a loro.

Sono tre progetti completamente diversi. In “RIDE” ero uno YOUTUBER che fa video di azione, uno di quei ragazzi che sa fare qualcosa molto bene in ambito sportivo e cerca di diventare una star in quello. Il film parla di due amici, entrambi due sportivi, che vengono contattati da una agenzia segreta per un contest con un sacco di soldi in palio. Lo sport che loro praticano nel contest è il DOWNHILL: gente che prende le mountain bike e si lancia in discesa per colline e montagne facendo cose pazzesche… In quel personaggio, MAX, mi sono divertito tantissimo. Era un film molto sperimentale, tutto fatto con le GoPro, molto determinante sul tipo di interpretazione, sul tipo di lavoro da attore: invece di stare attento a non oltrepassare i limiti di quella che è la scena precostituita dalle macchine da presa hai tu stesso addosso una macchina da presa, decidi tu qual è il campo d’azione: una libertà incredibile. È stato un gioco bellissimo! Sono legato a MAX perché è un po’ un Joker, ma più simpatico.
SANCTUARY” è una serie prodotta dagli svedesi con un cast internazionale: è stato molto bello stare insieme a MATTHEW MODINE che in “FULL METAL JACKET” era il protagonista: il fatto di mettersi accanto a lui e recitare in inglese è stato un privilegio. Il mio personaggio in quel caso è un matto. La serie parla di una clinica di riabilitazione mentale dove all’interno ci sono dei pazienti che erano stati mandati prima in galera e poi inseriti in una sorta di studio sperimentale sul comportamento umano. Un thriller con tempi svedesi, tempi nordeuropei molto lenti, molto rilassati. Un personaggio in cui sono riuscito a respirarci dentro. È stato divertente.
Per ultimo “DOLCEROMA”. Il personaggio a cui sono legato di più perché è stato un lavoro diverso, costruito in maniera diversa, un po’ più personale. Andrea Serrano è un ragazzo più o meno della mia età, che non ha fatto ancora nulla nella vita e vorrebbe tanto fare lo scrittore. Ho cercato nel personaggio di privarmi di tutte le armi attoriali, fisiche e umane che ho. Andrea mi piace perché credo di aver creato un alieno e di aver cercato in me delle parti meno facili da raccontare, quelle un po’ meno stereotipate, meno viste. Il tentativo è quello di dare allo spettatore un personaggio che non abbia punti di riferimento facili. Un po’ l’opposto di quello che fa, egregiamente, LUCA BARBARESCHI nel film, il produttore Oscar Martello, un personaggio basato su di una recitazione fuori, molto espositiva, tutto molto di facile comprensione, con un messaggio dritto verso il pubblico. Invece il personaggio di Andrea, un po’ simile alla mia generazione, è più introverso. Cerca di avere un atteggiamento meno all’attacco e più magnetico, più complesso.

L’attore ai tempi nostri: quali sono secondo te le nuove tecniche di recitazione e di girare, l’innovazione davanti e dietro la macchina da presa?

Negli ultimi 10 anni abbiamo visto una rivoluzione in ambito tecnologico che ha influenzato direttamente tutte le tecniche cinematografiche e televisive. Sono pochissime le cose che non sono cambiate. Forse l’audio. Anche fotografia e luci sono molto cambiate. Come anche gli approcci. È divertente vedere come dei ragazzi giovani, soprattutto direttori della fotografia, con quattro luci messe in croce, però particolari, vanno a sostituire un parco luci gigantesco di una volta. Non è cambiato il linguaggio, secondo me ce n’è un altro, è semplicemente una evoluzione. Si è ingrandito più che essere cambiato. Si sono allargati gli orizzonti e lo stesso linguaggio contiene il vecchio linguaggio dal quale è imprescindibile. Si possono creare nuovi strumenti, nuovi stili cinematografici, ma secondo me quelli che lavorano al meglio, quelli che funzionano di più, sono quelli che vanno verso l’innovazione, il futuro, tenendo sempre conto di quello che è stato il passato. Non è che adesso che c’è il web la scrittura è diversa, c’è uno strumento diverso, ma uno che scrive bene su carta scriverà benissimo anche sul web. Soprattutto in Italia, ci stiamo accorgendo che possiamo raccontare cose diverse in maniera diversa. Come al solito siamo un po’ in ritardo rispetto al resto del mondo ma ci stiamo aggiornando. Ho buone speranze.

Hai lavorato in una serie televisiva internazionale di NETFLIX come “MARCO POLO”: quali differenze fondamentali noti tra il cinema e la televisione estera ed italiana?

La differenza principale sono i soldi. E tu dirai: “è banale, è ovvio che sono i soldi”. Non è così. È vero, da un certo punto di vista, noi italiani siamo molto bravi perché riusciamo a fare delle bellissime cose con molti meno mezzi degli americani. Ma quando vai a fuori a cena con la fidanzata, che tu abbia 10 euro o 50 la differenza è enorme. Non puoi dire “andiamoci a mangiare il pesce” … perché quando vai a mangiare il pesce con 10 euro lei sta male. Sei costretto ad andare al MC DONALD quindi o piuttosto ad andare a mangiare una pizza molto semplice. È questo è un po’ l’errore che facciamo noi: cerchiamo di arrivare alla bistecca ma abbiamo in mano 10 euro. Da una parte lo spettatore non può attendersi quello che potrebbe avere da un film americano, dall’altra parte il produttore nostrano non deve fare l’errore di poter credere di poter pagare una bistecca 10 euro. Perché quella bistecca se la paghi 10 euro evidentemente non sarà così buona. Dobbiamo cercare un nuovo linguaggio. Non possiamo andare a fare le veci del linguaggio americano qui in Italia, non vinceremmo mai. Invece di essere uno stimolo per cercare linguaggi differenti cerchiamo di imitarli. I capi di NETFLIX ti dicono quello che vogliono e quello che vorrebbero da te e tu devi cercare di assecondare tutte le loro richieste. Soprattutto gli americani sono bravi nel creare un prodotto che funzioni, che piaccia più o meno a tutti e quindi che abbia, se vuoi, una struttura legata a un canone. Perché una volta che tu fai degli studi statistici su quello che va o che non va e su quelle basi tu ci crei una serie poi, la serie che verrà fuori, sarà inevitabilmente un mix di idee, più o meno buone, ma non avrà quell’idea singola, quel taglio autoriale, quello sguardo forte che può avere un film. Ma non è solo questo. Per esempio, quando ho finito “MARCO POLO” la prima cosa che ho fatto è stato un film con i FRATELLI TAVIANI, “UNA QUESTIONE PRIVATA” … ecco lì siamo agli antipodi: ho ricapito quello che voleva dire il cinema. Cioè, mettersi lì, con tutto il tempo del mondo, tutto il tempo necessario per fare una scena. Invece in “MARCO POLO” c’erano budget da 200 milioni di dollari ma si correva, non c’era il tempo per parlarne per, veramente, far ossigenare le idee. Mentre con i Taviani… Paolo Taviani mi prese e mi mise in un bosco, a parlare 40 minuti del mio personaggio prima di girare la scena, per capire effettivamente quanto io fossi lì, presente nel racconto. Nelle serie televisive italiane Il sistema di lavoro purtroppo è molto simile e soffre delle stesse identiche malattia. Il problema che abbiamo in Italia è che c’è poca competizione, le stesse produzioni coprono la maggior parte delle richieste, il mercato si appiattisce e il prodotto diventa più scadente. L’America in questo ha un sistema che va più sul merito, in qualche maniera. È vero che puoi fare quello che ti pare e investire un sacco di soldi… però poi la gente là veramente sceglie di comprare una cosa. Non c’è la RAI in America, ci sono altri tipi di sovvenzioni statali, cose diverse. È un mercato più libero. E la stessa cosa nel cinema. Con la differenza che l’America in questi ultimi anni si sta un po’ troppo industrializzando.

Facciamo un tuffo indietro nel tempo: dicci quali sono i registi storici del passato con cui avresti voluto lavorare?

Grande curiosità per ALFRED HITCHCOCK. Ma perché odiava gli attori o comunque non gliene fregava fondamentalmente nulla. Mi sarebbe interessato in quel caso mettermi al servizio di uno che non ti calcola proprio. Che è anche una liberazione… A volte tu vai lì a fare l’attore, nel caso degli americani, trattato come un principe di Persia. Ma non ti aiuta il fatto che loro ti considerino come chissà chi: trovarsi in un contesto come quello, dove il lavoro era lavoro, sarebbe stato forse gratificante.
Per l’Italia direi MARIO MONICELLI. Perché sono innamorato follemente dei suoi film, del suo messaggio, di quello che ha raccontato e di come lo ha raccontato. Sembrava un nonno. Al pensiero mi viene da immaginare come se fosse stato lavorare con qualcuno di casa, di famiglia.
Per terzo, giusto perché era un genio, ORSON WELLES. È uno di quei personaggi così leggendari che semplicemente l’idea di starci accanto… Era un avventuriero del genere. Orson Welles sta al cinema come ERNEST HEMINGWAY sta alla scrittura. Non era un intellettuale: era uno che faceva le cose e poi, se vuoi, ti raccontava come e perché l’aveva fatte. Ma fondamentalmente le faceva.

Lo sport. Sei molto allenato, indipendentemente da le richieste dello spettacolo che legami hai con la forma fisica, quali sono gli sport che ti piacciono e che pratichi? Quanto sono importanti per il tuo background artistico?

Mi è sempre piaciuto muovermi. Sono il classico bambino che non stava mai fermo, che si arrampicava sugli alberi. Ho sempre sentito la voglia di esercitare la mia forza, la mia potenza fisica sulle cose intorno a me. In questo non ho mai negato la mia “bestialità” o “animalità”. Sono a contatto con quella parte di me in tutte le cose che faccio e ovviamente anche con il lavoro. Mettici in più che quando ero piccolo, fino ai 13 anni, sono stato parecchio grasso e l’ho vissuta molto male questa cosa, il fatto di non essere atletico. Quando ho sviluppato, a 14 anni, ero diventato non dico magro ma quasi… allora mi sono attivato, mi sono detto che era il momento di fare qualcosa. Pippa a calcio assoluta, sempre; ero molto bravo a pallavolo; ho praticato per anni il tennis; quando per motivo di lavoro o meno dovevo rimettermi in forma mi è sempre piaciuto molto correre; ho fatto un anno e mezzo di Parkour; ho fatto Free Running in boschi, strade, percorsi particolari che sceglievo io in cui magari ci mettevo qualche salto divertente, qualche trick particolare. Per un motivo o per un altro la mia carriera è sempre stata accompagnata dallo sport. Uno dei primi film che ho fatto era “100 METRI DAL PARADISO” in cui ero un corridore. Subito dopo “IL TERZO TEMPO” in cui ero un rugbista. Poi è arrivato “MARCO POLO” e li è stato il grande expilot, lì mi sono trovato con gli stessi allenatori di Keanu Reeves in “MATRIX”, gente che mi metteva sotto pressione, che mi voleva non solo far venire un bel fisico ma che voleva anche insegnarmi il Kung Fu e altre tecniche di arti marziali. Per me “MARCO POLO” in quel caso è stato veramente una “Hogwarts” per tutte le discipline. Per quanto mi riguarda non aveva molto senso che il mio personaggio fosse muscoloso e grande fisicamente, ma loro avevano un’altra idea… Quindi ho dovuto farmi mesi e mesi di 3, 4, 5 ore al giorno di training in cui ho capito cosa significa, cosa vuol dire l’allenamento vero, quello atletico a livelli professionali, a che tipo di stress riesci a sottoporre il tuo corpo. In quei 3 anni ho preso una cosa come 12 chili di muscoli… È stato difficile ritornare a com’ero prima, ma per fare il film dei Taviani, nella parte di un partigiano, sembravo ridicolo ad aver tutti quei muscoli addosso. E quindi sono sceso e tornato normale… Ho fatto una bella esperienza, anche molto faticosa, che forse non ripeterei, ma che mi ha dato a oggi la possibilità di cambiare il mio fisico, usarlo molto. Adesso so che è uno strumento molto forte con cui affrontare il mio lavoro. Diciamo che in tutti i miei personaggi ho sempre fatto prima una analisi sul fisico che sul cervello. Lavoro un po’ più da quel punto di vista lì.

Descrivici un particolare momento della tua vita che ti rappresenta.

Ce l’ho! Alla fine della prima stagione di “MARCO POLO”. Fu una scena epica. Dopo 9 mesi di riprese in Malesia, a 45 gradi, l’ultimo giorno di riprese. Un giorno di riprese molto particolare perché era una battaglia molto grande, una scena molto bella e dispendiosa, molto faticosa anche in cui io ero lì a fare a spadate coi cinesi… Terminata l’ultima scena la prima cosa che ho fatto mi sono spogliato completamente nudo e ho cominciato a correre per tutto il set, un villaggio mongolo gigantesco, pieno di aggeggi di scenografia, fango… Mi sono fatto una corsa di 2 chilometri gridando come un pazzo “È FINITA! È FINITA!”. Perché allo stesso tempo è stata la cosa più bella che abbia mai fatto, ma anche la più faticosa. In quel momento lì ritrovo me stesso: ritrovo tutta la voglia che uno ha di mettersi in gioco e allo stesso tempo tutta la voglia che uno ha di star tranquillo, di essere una persona normale. In me queste due facce convivono sempre.

Qual’è la colonna sonora della tua vita? Come varia a seconda dei momenti? I mesi dell’anno?

Più che dai mesi dell’anno e dal periodo dipende dal “mood” che sto vivendo: se sto lavorando, se sto in vacanza. Sono molto elettronico, quando devo prepararmi a qualcosa vado molto sulla musica elettronica, soprattutto la DRUM AND BASS. Ho un grande passato da “raverino”, grandi feste, quelle che puoi immaginare, rave party e non… Diciamo che ci sono dei periodi della mia vita che si agganciano a degli stili musicali. Sono partito con il PUNK e il ROCK, poi mi sono trasferito sull’ELETTRONICA e adesso sto in un momento assolutamente HIP POP.  Se dovessi scegliere tre gruppi per queste sezioni della mia vita potrei dire “SYSTEM OF A DOWN” all’inizio, anche se non è proprio PUNK ROCK ma METAL… o che ne so, “BLINK-182” che va molto sul PUNK… poi sono passato sull’ELETTRONICA e quindi “RATATAT” o “APHEX TWIN”. E invece adesso sono appunto HIP POP, ma non l’hip pop moderno che non mi piace particolarmente. Ho riscoperto molto, anche perché adesso sapendo molto meglio l’inglese capisco bene le canzoni, i primi anni ’90 e 2000 dell’HIP POP. In questo momento preciso “AESOP ROCK”.

Quali sono le tue passioni nella vita oltre al lavoro?

Questa è facile. Prima di tutto il viaggio. Il viaggio per me è tutto. Il viaggio rappresenta il movimento della mia vita, qualsiasi cosa che faccio per me è un viaggio. Se faccio un film in testa ho un viaggio: un’andata e un ritorno. Ho viaggiato moltissimo, sono stato più o meno in tutta l’Asia. Ho avuto la fortuna di avere il compagno di mia madre che è un gran viaggiatore e mi ha portato fina da quando avevo 8 anni più o meno in tutto il sud est asiatico. E i videogiochi, assolutamente. Uno in particolare, “GEARS OF WARS”, che è un gioco storico dell’Xbox. Da quando avevo 16 anni gioco a quel gioco, e continuo a giocarci aggiornandomi nelle varie versioni. Se volete incontrami in un live Xbox prendetevi l’ultimo “GEARS OF WARS” e ci sarò.

I tuoi progetti da realizzare e in corso d’opera. adesso che cosa farai? Con quali registi lavorerai?

Ci sono diverse cose su cui sto lavorando. L’unica di cui posso parlare è questa serie americana, prodotta dalla ABC STUDIOS, che andrò a girare in Nuova Zelanda. È una cosa molto divertente, un pilota, quindi magari non succede niente, però è una grande produzione che si ispira un po’ a “LOST”. Vado a fare un pirata australiano di 400 anni. Il creatore è JOHN FELDMAN e il regista è JOSEPH MCGINTY NICHOL, quello del film delle “CHARLIE’S ANGELS” del 2000 per intenderci. È ambientato ai giorni nostri e si racconta la storia del Triangolo delle Bermuda dove tutti quelli che sono intrappolati lì dentro ormai da anni non possono invecchiare, non possono fare figli e non possono scappare, sono bloccati in una specie di limbo. Mi diverte molto l’idea che andrò a fare un lavoro che 10 anni fa per un attore italiano era impensabile: poter andare a fare un mese il pirata in nuova Zelanda!!!

Parliamo di teatro: che rapporto hai con lui?

Un rapporto bellissimo. Di amore e odio. I miei hanno lavorato principalmente a teatro, ho scoperto così questo mestiere. Da piccolo alla prima esperienza teatrale avrò avuto si e no 4 anni. Seguivo la compagnia di mia madre per un tour in Sicilia. È un mondo bellissimo. Si dice sempre il cinema è dei registi, il teatro degli attori: perché è così! Perché quando calchi il palcoscenico è l’unico momento in cui hai la sensazione reale di quello che sta producendo il tuo lavoro rispetto ad altre persone. È un posto talmente bello… Ma allo stesso tempo ci ho visto talmente tante cose brutte che l’ho anche odiato. Adesso non ricordo esattamente la citazione, dovrebbe essere addirittura di GOETHE… in “VIAGGIO IN ITALIA”, credo abbia detto “Ogni attore che calca il palcoscenico dovrebbe avere l’attenzione di un funambolo”. Ogni volta che non vedo questa cosa mi dispiaccio molto perché viene un po’ violentato, nella sua sacralità. Viene da lì, ovviamente, il cinema e qualsiasi forma di spettacolo. Sono un grecista in questo, sono un affezionato della cultura classica. I politici obbligavano la popolazione ad andare a vedere le rappresentazioni per cercare di capire come essere delle persone migliori, i poveri entravano gratis, era un modo di far sentire una comunità unita. Ad oggi rappresenta uno dei miei obbiettivi più ambiziosi personalmente, vorrei tornare a farlo. Ho dei progetti, cose scritte da me. Vedrò quando e come. Però lo rispetto fortemente, in questo momento mi dispiace vederlo, almeno in Italia, non sempre ma per la maggior parte tradito.

Il cinema che tu vorresti?

EH! Guarda, secondo me, stiamo vivendo un bel momento. C’è stato il cinema degli anni ’90 e dei primi 2000 che per me è stato uno dei più alti. Mi sono visto “PULP FICTION” 25 volte… Sono uno cresciuto con quei film là, non ho paura a dire che sono affezionato più a QUENTIN TARANTINO che a STANLEY KUBRICK. Kubrick è superiore, lo studio volentieri, ma mi rappresenta di meno: mi diverto più a vedere Tarantino. Il cinema che vorrei è un cinema sfrontato, politicamente scorretto, un cinema coraggioso. Che invece di riproporre al ribasso la parodia di noi stessi cerca di sfondare le barriere che abbiamo in termini culturali. Il cinema può farlo, l’ha già fatto e oggi dovremmo ritrovare un linguaggio per poterlo rifare, anche se il mercato lo rende più difficile. Di registi visionari speriamo ce ne siano ancora. Ripenso ad un film che mi piaceva molto che era “PAZ” di Renato De Maria, sui personaggi di Andrea Pazienza, un film molto strano, sui generis, diverso dagli altri. Ecco, mi piacerebbe vedere più film diversi l’uno dall’altro.

Per ultimo dicci un libro, una canzone e un idolo per te importanti. E perché?

Il libro: “LA VARIANTE DI LÜNEBURG” di PAOLO MAURENSIG, che è anche l’autore di “CANONE INVERSO”. Un libro sulla seconda guerra mondiale dove un capo nazista gioca a scacchi con un ebreo imprigionato nel suo campo di concentramento. Si crea questo rapporto strano per cui il capo nazista desidera fortemente giocare con questo ebreo, sa che lo farà vincere e per invogliarlo incomincia a sfidarlo intavolando questa serie di partite in cui questo ebreo deve vincere per far sì che questi non ammazzi i suoi fratelli. Mi colpì molto perché l’avrò letto quando avevo 14 anni. Avere da piccolo la possibilità di leggere un libro sul nazismo, nel modo se vuoi anche dolce di Maurensig, mi ha dato un colpo di umanità. Ho avuto questa sensazione netta dentro di me di aver capito qualcosa di fondamentale che mi sarei portato dietro per tutta la vita. Visto che ci sto ti butto anche un altro libro: “BAUDOLINO” di UMBERTO ECO. Eccezionale! Molto diverso dai libri di Eco perché, sì, traspare tutta la sua cultura e quindi la sua complessità, ma è anche una favola. La favola di un ragazzetto che segue Barbarossa nelle crociate e ti spiega il mondo del medioevo mischiato alle leggende e alle credenze di quegli anni. Un libro stupendo che ho beccato in Indonesia a 13 anni, per sbaglio. Era l’unico libro in italiano che trovai in questa libreria asiatica. Ero piccolo… mi sono attaccato, 700 pagine, un altro viaggio pazzesco.
La canzone: è “ROULETTE” dei SYSTEM OF A DOWN, perché è la canzone con cui sono entrato al CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA. Per l’audizione ti chiedono una poesia, un monologo e una canzone… E io, non sapendo cantare, ho portato una canzone METAL. In realtà è una canzone molto tranquilla rispetto alle altre, non gridata, ma con un tono di voce non particolarmente intonato che non richiedeva una particolare tecnica. Sono andato umilmente, con una cosa semplice. È una di quelle cose che mi ricorda da dove vengo e chi sono.
L’idolo: è molto difficile perché nella mia vita mi sono sempre cercato di costruire degli idoli e poi di buttarli via. Per dirne una: PIER FRANCESCO FAVINO è sempre stato il mio attore preferito in Italia. Poi ci ho lavorato durante “MARCO POLO” e gliel’ho detto “Sai? Fino adesso sei sempre stato il mio attore preferito!” e lui mi ha detto “Vabbè… e mò?” “E adesso ti conosco! Sarei un idiota a mitizzarti… ti vedo, sei qui!”. Il bello di persone come Favino è che vedi la grandezza e la semplicità allo stesso tempo, che è una cosa bellissima. Uno, secondo me dovrebbe sempre cercare di capire chi sono i propri idoli anche umanamente. Ad oggi però, se devo darmi un idolo, che è un faro, ed è anche il mio attore preferito, ti direi DANIEL DAY LEWIS. Lui è una di quelle persone che è riuscito a fare questo mestiere esattamente come vorrei dipingerlo nel mio ideale. È uno che è riuscito a usare al meglio l’essere attore. Per capire meglio sé stesso, per farsi dei viaggi incredibili e per restituire a tutti quelli che lo hanno visto una umanità che secondo me arricchisce il mondo. E forse questo è il più grande successo che può avere un attore, no? Quello di arricchire di umanità il mondo, di far vedere quanto ancora possiamo essere belli, naturali, grandi come uomini. Quando lo fai e riesci a convincere le persone di questa cosa… CAHPEAU!

di PAOLO RICCI
Photo By EMANUELA “ERA” RIZZO
Un particolare ringraziamento ad Andrea bonella

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About Paolo Ricci (39 Articles)
Paolo Ricci, nato a Pistoia nel 1972, è un attore e caratterista Italiano; la sua carriera nel mondo dello spettacolo inizia nel 1986 frequentando televisioni, teatri e set. Nel 1998 Paolo Ricci si Diploma come Attore di Prosa alla Scuola di Teatro di Bologna “Alessandra Galante Garrone” e dal 1999 si trasferisce a Roma. Esordisce agli inizi degli anni duemila interpretando ruoli da protagonista e coprotagonista, primario e comprimario nel cinema (major e indipendente), in televisione (anche come presentatore), nel teatro di prosa e per il teatro per ragazzi. Grazie all'intensa carriera cinematografica, partecipa attivamente al cinema indipendente con lungometraggi, cortometraggi e videoclip musicali; impegnandosi anche in pubblicità, documentari, doppiaggio, radio e speakeraggi. E’ attivo anche nella promozione, direzione artistico/organizzativa di eventi, compagnie teatrali, gruppi di lavoro e laboratori con le sue organizzazioni e piattaforme multimediali (Progetto TANGRAM) che offrono una vetrina di visibilità in tutti i campi dello spettacolo sia a figure emergenti come di confermata notorietà; infine l’attore si dedica anche all'insegnamento della recitazione e dell’improvvisazione. http://www.riccipaolo.it/ - https://progettotangram.wordpress.com/
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